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Ben prima che Neil Armstrong posasse il piede sulla sabbia del Mare della Tranquillità, la fantasia degli uomini ha immaginato di percorrere la distanza che ci separa dalla Luna e di compiere viaggi mirabolanti e bizzarre esplorazioni in quel mondo lontano, alla scoperta di nuovi territori popolati da esseri viventi straordinari. Si potrebbero citare numerosi esempi di questa letteratura fantastica; per non correre però il rischio di compilare un arido elenco, credo sia preferibile presentare qui soltanto alcuni brevi passi tratti da tre diversi esempi, distanti tra loro nel tempo, ma accomunati dalla caratteristica di unire un puntiglioso realismo alla ricchezza ironica dell'immaginazione, senza però mai scadere nel fatuo o nel banale: la Storia vera di Luciano di Samosata (II sec. d.C.), Le avventure del barone di Munchausen di Rudolf Erich Raspe (1785) e Le cosmicomiche di Italo Calvino (1965).
Le invenzioni di questi autori non nascono nel mondo incontrollabile della fantasia irrazionale. Anzi, al contrario, ogni atmosfera di sogno è bandita: la ragione si diverte a beffare se stessa, immaginando un mondo opposto a quello reale, dove la menzogna, meditata a mente fredda, ostenta la propria impossibilità. Lo stile secco e sobrio sembra voler ribadire la veridicità delle cose descritte, che seguono la lucida logica dell'assurdo: forse nessun'arte è più difficile da realizzare di questa letteratura, capace di regalarci pagine davvero deliziose.
Nella Storia vera, che a buon diritto si può considerare il capostipite del romanzo di fantascienza, l'autore narra, tra altre cose più o meno fantastiche, un suo viaggio sulla Luna, descrivendone l'ambiente e gli abitanti. Per mangiare, i Seleniti "accendono un fuoco e sulle braci arrostiscono delle rane: là infatti ce ne sono molte che volano in aria. Mentre si fa l'arrosto, si siedono tutt'intorno come a una tavola, annusano il fumo che esala e con questo si saziano. Per bere utilizzano l'aria, spremendola in un calice e ricavandone così un liquido simile alla rugiada". Visitando poi la reggia del re della Luna, Luciano trova "un grande specchio sopra un pozzo non molto profondo. Se uno scende nel pozzo sente tutte le cose che si dicono sulla terra, qui da noi; se invece guarda nello specchio vede tutte le città e tutti i popoli come se ci stesse sopra. Io vidi i miei familiari e la mia patria, ma non so dire con certezza se mi videro anche loro". E infine, a conclusione della sua descrizione, Luciano avverte maliziosamente che "chi non crede alla verità delle mie parole, si accorgerà, se un giorno capita lassù, che non dico affatto bugie".
Degne eredi della Storia vera sono le strabilianti spacconate narrate dal barone di Munchausen attraverso l'arguta penna di Raspe, con lo stile asciutto ed elegante del Settecento. Descrivendo la sua visita sulla Luna, il caro barone ci informa che "tutto in quel mondo è di dimensioni straordinarie: una pulce comune è assai più grossa di una delle nostre pecore. [...] Quanto agli abitanti, nessuno di loro misura meno di undici metri di altezza. [...] Con l'unico dito di cui sono fornite le loro mani essi compiono ogni cosa con la medesima perfezione di cui possiamo vantarci noi che ne abbiamo quattro oltre il pollice. La testa l'hanno sotto il braccio destro, e quando vanno in viaggio o devono esporsi a violenti esercizi fisici, la lasciano a casa, dato che possono consultarla a distanza. [...] Lassù gli acini d'uva sono tali e quali la nostra grandine: anzi, io sono convinto che quando un temporale o una bufera squassa i vigneti della luna strappando i grappoli dai tralci, gli acini che ne cadono danno luogo alle nostre grandinate. La prossima volta che grandinerà, vorrei consigliare a coloro che condividono questa mia opinione di conservare una buona dose di quegli acini e di farne il vino della luna". La conclusione del racconto riecheggia in modo beffardo quella già posta al termine della storia di Luciano: "Lo so che alcune di queste cose possono apparire strane, ma se a qualcuno rimanesse l'ombra di un dubbio, faccia un viaggio anche lui, e allora saprà se sono o no un viaggiatore veritiero".
Prosa agile e toni ironici caratterizzano anche Le cosmicomiche di Italo Calvino. Il primo racconto di questa raccolta si intitola La distanza della Luna e ha questa sorta di introduzione dal sapore "scientifico": "Una volta, secondo Sir George H. Darwin, la Luna era molto vicina alla Terra. Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano: le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia". Queste parole offrono il destro al protagonista de Le cosmicomiche - un eroe senza tempo, nostro antichissimo antenato ma anche nostro contemporaneo, dal nome impronunciabile, Qfwfq - di raccontare la sua storia: "C'erano delle notti di plenilunio basso basso e d'alta marea alta alta che se la Luna non si bagnava in mare ci mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci? E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montar su. [...] Ora voi mi chiederete cosa diavolo andavamo a fare sulla Luna, e io ve lo spiego. Andavamo a raccogliere il latte, con un grosso cucchiaio ed un mastello. Il latte lunare era molto denso, come una specie di ricotta. Si formava negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza terrestre, volati su dalle praterie e foreste e lagune che il satellite sorvolava". Poi un giorno la Luna si allontanò per sempre dalla Terra, portando con sé la donna amata da Qfwfq: "Anche ora che la Luna è diventata quel cerchietto piatto e lontano, sempre con lo sguardo vado cercando lei appena nel cielo si mostra il primo spicchio, e più cresce più m'immagino di vederla, lei o qualcosa di lei ma nient'altro che lei, in cento in mille viste diverse, lei che rende Luna la Luna e che ogni plenilunio spinge i cani tutta la notte a ululare e io con loro".
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